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Papetti, quando la scrittura è genio

Il secondo volume della sua trilogia, “Perchè ci hai messo tanto?”, fonde Godard i Monty Python, Buster Keaton con i guru della multimedialità degli anni Settanta.

 

di Ottavio Cappellani

 

Senza giri di parole, Papets, detto Enzo Papetti, è un genio. Il secondo volume della sua trilogia (dopo “L’oggetto Piccolo B”, sempre Elemento 115 editore – l’elemento 115, secondo Bob Lazar, sarebbe il carburante degli Ufo) che si intitola “Perché ci hai messo tanto?”, fonde Godard, i Monty Python, Buster Keaton con i guru della multimedialità anni Settanta, con la cibernetica, essenzialmente con la corrente di pensiero che “vede” come la prima forma “input” all’ “immagine in movimento” sia proprio la parola: ascoltare qualcuno che narra, leggere una storia, non vedete il “cinema” nel vostro cranio all’altezza della fronte?

C’è Kant, in quest’operazione di Papets, rivista nel senso di una critica della ragione cibernetica. Partire da un libro, da una pagina stampata, riempirla di QR code, di immagini, di link, ci fa riformulare la rivoluzione gutenberghiana riempiendola di un significato che ancora oggi – mancanza imperdonabile – non è stata esplorata. Per chi la frequenta da molto tempo rappresenta anche una speranza per la “carta stampata”, che, come disse Umberto Eco, è tecnologicamente superiore ai nostri device innanzitutto perché non ha bisogno di batteria, come se avesse un motore immobile ed eterno.

Siamo in tanti i supporter di Papets, da Renato Mannheimer, che fa incursioni nel libro come fossero vocali whatsapp o immagini subliminali ad Alberto Abruzzese, che del libro scrive: “è una sfida contro la narrativa cartacea senza rinunciare alla letteratura (avete mai letto narrazioni che pullulano di note?) ma soprattutto senza rinunciare alle risorse che possono venire dalla memoria digitale e avendo l’ardire di coniugarla con l’alfabeto e gli alfabetizzati”.

Il romanzo, l’intreccio per così dire, si innesta a perfezione nell’operazione intellettuale, è una metatrama della quale stupisce come l’ordito sia al contempo al servizio e servito dal sottotesto metafisico: tre storie d’amore che condividono il Tempo ma non lo Spazio; non sono forse così tutte le vere storie d’amore? Non si situa nel Tempo e non nello Spazio l’amore verso i genitori persi, le storie d’amore perfette e mancate, non è forse una “nostalgia del futuro” che ci prende quando immaginiamo uno “spazio” non “presente” che rimetta a posto il dolore?

E nel testo note, rimandi, ma soprattutto ironia e autoironia, che sono le armi celestiali per combattere il lutto. Il Tempo senza Spazio, dove lo Spazio esiste come mancanza e al contempo come speranza, e in cui il Tempo (passato, presente, futuro) viene inchiodato alle sue responsabilità da un sorriso sapiente.

Ma non è solo questo: tenere tra le mani questo oggetto-libro, apre, come in un click, finestre mentali: non è forse la mente nel suo rapporto con l’esterno la prima (e ancora insuperata) forma di multimedialità?

E’ un libro teologico, quello di Papets. L’autore ha un rapporto con la metafisica che dovrebbe fare da esempio: un piede qui e un piede lì, con un sorriso “occidentale” che si fa beffe di ogni tecnologia, essendo “cosciente” che la mente è un supercomputer insuperabile, capace di gestire vita, morte, amore, Spazio e Tempo.

I “film” tratti dal libro, cortometraggi geniali, spiegano perché amiamo questo autore al quale l’Italia starebbe indubbiamente stretta, se non fosse per la sua immensa generosità.

Enzo Papetti, già docente alla Sapienza di Roma e allo Iulm di Milano è scrittore, regista, sceneggiatore, autore televisivo e radiofonico.