dedicata a Roberto Roversi
Quando venni in Lombardia ero giovane, allora. Per strade rose dai fischi dei vapori il pianto di un ragazzo migrò libero verso la frontiera; l’ombra dei montanari saliva verso il cielo e in tiepidi restaurants i camerieri scoprivano agli ufficiali distratti da un occhio adolescente fragili zuppiere.
Nel rifugio della stazione, mentre i treni bruciavano bianchi neri contro le vetrate, la donna appoggiò i chiari capelli sul mio zaino.
Terra per eserciti in fuga verso i monti. Tremano al lume di luna le giovani foglie, Austria, Svizzera, Francia alla frontiera. In due giorni di cammino
sui laghi volarono, col balzo delle trote, le speranze.
A Novara, a Novara; oh a Novara, in un’osteria avvinghiata da caserme bruciate; un uomo grida sul prato della periferia, al mattino era morto. Ivrea, Aosta… su quelle strade marciavo e per i monti frustato da tristezza, dai ricordi. Ai quadrivi immobili magri tedeschi in tuta, donne esultanti per gioia sventura. “La guerra è finita. Incomincia la guerra. Mio figlio è in Russia. A ipro è mio figlio. Mio figlio è in Africa. In Sicilia è mio figlio. L’America a Genova tempesta. I cinghiali fuggono, i tedeschi lasciano Roma… “Uccelli caduti nella polvere le gelide mitragliatrici. “Scheise Mensch!” ci odiano, guardando le vie battute da uomini disfatti, le donne sull’uscio delle case; ogni fosso custodisce un sonno, i casolari offrono l’acqua, i l pane. Fuggono simili a formiche lungo i muri, picchiati dalla fame; s’accascia l’Italia muggendo di dolore. Quel tempo, rosso sangue di bue appena macellato. Fuoco sui paesi della collina o persi dentro al mare, su chiese, monasteri, là dove Appennino torce il corso, fra le canne delle paludi, dovunque Italia spinge la sua chioma azzurra. Gettavano lo zaino contro l’uscio. II riso dei tedeschi era furioso, biondo. Senza più sonno, agnelli al sacrificio, i cittadini alle finestre a spiare
il passo della ronda per il mondo. Buttato riverso ascolto la terra sospirare. La guerra sembra lontana, così l’immagine dell’impiccato. la sua ombra profonda nella polvere. In un giorno d’aprile. Sul lungomare fiori acerbi, duri, muri da lunghe schegge sbriciolati, il filo spinato arrugginito. Una madre tiene sui ginocchi il ritratto del figlio. Poi nell’aria l’odore di fuoco fra gli ulivi. L’uomo salito sul palo per tendere i fili della luce, con il ferro e il cuoio alla cintura,
è un partigiano dal viso magro di antico italiano. Nel castello a Camogli il sergente Leone pecorella di dio beve sciampagna sdraiato nudo sul letto di una contessa fuggita. Entra dalla finestra il volo fresco del mare. Il sergente Leone
sfonda porta, lucchetto e arriva alla cantina. Mi innamorai di Haabiorg.
Guardandola bruciavo. Lei correva al mattino col biondo Cornino, l’arcangelo.
Correva nel bosco al tramonto. “Fra poco avrà gonfia la pancia”,
ghignano i maledetti soldati. Al lume di candela la serata finiva. Partimmo: “Addio, addio, addio mia bella, addio”, cantarono i soldati. Tutti nel fango sono dimenticati. Ma lei non è scordata, la sua persona splendida beata è là nell’erba (lucciole delirare all’ultimo addio). Lei sola, nel leggero sciogliersi di riccioli, nel rischiarare delle caute parole, perdona – dopo tanti anni La sua giovinezza è ancora su quel mare. Marco appare: “Il paese bruciato. Guarda le case, tronchi senza vita, macerie, polvere. La forte gioventù morta, fuggita”. Il sole indora la campagna, cade dai nevai; odore di un fuoco calmo dentro al vento. La gente ferma sulla piazza. M’azzanna il cuore una vespa infuriata.“I mongoli affamati
danno alla nostra carne questi morsi. I tedeschi li armano, li avventano ubriacandoli; bruciati dalla grappa cadono urlando sulla strada, prendono le donne come cani. Pecore siamo nell’Italia morta”. M’avvio nella valle solcata
da un fiume, con cime fuggenti, stormire d’alberi, ruscelli stenti migrano, fra onde di foglie i castelli persi nelle ombre. Case incendiate specchiano le nubi;
dentro ai paesi occhi e ossa d’uomini tendono la mano, pellegrini vinti da una sciagura. Pendono le travi delle case. “Le donne uccise”, dicono, “o scampate
al massacro, spente di paura giacciono nel buio delle stalle. Da uscio a uscio per fienili e case i mongoli cercarono, fra le balle di paglia, carrette rovesciate;
bruciò il paese, fuggono le donne rauche disfatte pazze di terrore”.
I vigorosi uomini lontani. Pagarono le donne con la vita la breve età felice e i neri capelli. Tornano adesso i giovani strisciando lungo le siepi della valle.
Nelle luride stalle di Romagna il nome è bisbigliato, una candela brucia intanto le foglie del dolore. Trasformato in vecchietto questuò sul sagrato, ridendo
al nemico in agguato e lo infuriò, poi, terribilmente vivo.
Era un ragazzo dall’ala lucente. Solo, o con pochi, rapidi disfarono
il nemico sul ponte, prima con scherno poi con rabbia e fuoco: liberi nell’arena
lo colpirono alla fronte. Per lui era viva la Romagna. Questo giuoco di morte e vino iniziò sui tavoli della sua terra, calpestata da chiodi e da giovani fosse;
era lui il pellegrino che guarda la divisa del nemico nera contro la torre del Comune e lento vuota un bicchiere di vino. Per prati e campi verso Modigliana
intorno è tutto un cimitero. Gli uomini sono sepolti nella spagna. Passano i tedeschi nelle Langhe, strisciano i piedi sull’asfalto. Stridono ruote, battono i fucili contro gli elmetti vuoti, per la strada di campagna, dinanzi all’osteria
sporca di mosche, ancora insanguinata per la morte di una donna fulminata
con bicicletta e pane accartocciato, l’insalata, il sale, da un colpo di pistola. Un cavallo al galoppo, ombre, voci correnti lungo l’argine, per le sponde mescolate di fango e erba nuova. Poi al mattino le Langhe sono azzurre nell’abbraccio delle Alpi deserte. Carri armati posano sotto gli alberi, i negri ridono, stendono le mani, la gente nelle vie, tutte le finestre al sole. Giorno sacro d’aprile. Alti vocianti feroci uomini nuovi. “È finita la guerra”, questo il popolo grida; gli anni si frantumano, un mondo nuovo affiora ribollendo dalla schiuma aspra del dolore. La piazza di calce, bianca nell’aria d’aprile, tacque; un uomo apparve sul palco, parlò poche parole aprendo la nuova storia. (Tratto da Dopo Campoformio, Einaudi, 1965)
Cento anni sono un giorno, un giorno solo. E in un giorno si possono incontrare tutti gli occhi tutte le mani tutte le fatiche che per cento anni hanno scavato il mondo. Il mondo non è stato buono con le mani con le fatiche che l’hanno scavato e con gli occhi che l’hanno guardato. Gli occhi hanno visto il sangue scendere sopra la fatica delle mani. Cento anni fa c’era una speranzaforte dentro alla fame e al dolore. Cento anni fa cominciava un cammino che non è ancora finito. Non è ancora finito. Il cammino è incominciato quando una voce ha risposto a una voce una mano ha stretto una mano un passo ha seguito l’orma di un passo e voce mano passo camminavano avanti. Quando una voce ha gridato ‘fratèllo’ ed è arrivato un fratello
quando ha chiamato ‘compagno’’compagna’ e una piazza si è riempita di gente.
La lotta è speranza del futuro. Poi il futuro è arrivato ancora le voci si chiamano si ascoltano i passi, le mani si stringono insieme. Nessuno dei vecchi
è ancora un’ombra dispersa nel sole e sulla strada sempre segnata di orme
arrivano i giovani e portano nuove bandiere i giovani arrivano e portano le nuove parole.